venerdì 26 aprile 2013

e in Italia Cesare Pavese.

Last blues, to be read some day.


'T was only a flirt
you sure did know-
some one was hurt
long time ago.

All is the same
time has gone by-
some day you came
some day you'Il die.

Some one has died
long time ago-
some one who tried
but didn't know.

e stampate:
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, passerò per piazza di Spagna 
1

poesia, ancora poesia..

da stampare, per lavorarci sopra..

http://libripensieri.wordpress.com/2012/02/02/possibilita-di-wislawa-szymborska/


Ogni caso
Poteva accadere.
Doveva accadere.
E’ accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
E’accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’animo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì? Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.
Wislawa Szymborska


Barbara di Jacques Prévert


Ricordati Barbara
Pioveva senza sosta quel giorno su Brest
E tu camminavi sorridente
Serena rapita grondante
Sotto la pioggia 

Ricordati Barbara
Come pioveva su Brest
E io ti ho incontrata a rue de Siam
Tu sorridevi
Ed anch'io sorridevo 
Ricordati Barbara
Tu che io non conoscevo
Tu che non mi conoscevi 
Ricordati quel giorno ad ogni costo
Non lo dimenticare
Un uomo s'era rifugiato sotto un portico
E ha gridato il tuo nome
Barbara
E sei corsa verso di lui sotto la pioggia
Grondante rapita rasserenata
E ti sei gettata tra le sue braccia 
Ricordati questo Barbara
E non mi rimproverare di darti del tu
Io dico tu a tutti quelli che amo
Anche se una sola volta li ho veduti
Io dico tu a tutti quelli che si amano
Anche se non li conosco 
Ricordati Barbara
Non dimenticare
Questa pioggia buona e felice
Sul tuo volto felice
Su questa città felice
Questa pioggia sul mare
Sull'arsenale
Sul battello d'Ouessant 
Oh Barbara
Che coglionata la guerra
Che ne è di te ora
Sotto questa pioggia di ferro
Di fuoco d'acciaio di sangue
E l'uomo che ti stringeva tra le braccia
Amorosamente
E' morto disperso o è ancora vivo 
Oh Barbara
Piove senza sosta su Brest
Come pioveva allora
Ma non è più la stessa cosa e tutto è crollato
È una pioggia di lutti terribili e desolata
Non c'è nemmeno più la tempesta
Di ferro d'acciaio e di sangue
Soltanto di nuvole
Che crepano come cani
Come i cani che spariscono
Sul filo dell'acqua a Brest
E vanno ad imputridire lontano
Lontano molto lontano da Brest
Dove non vi è più nulla 

 Jacques Prévert






giovedì 25 aprile 2013

mercoledì 24 aprile 2013

ancora in trasferta...


DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO
L’INDUSTRIA CULTURALE

L'atrofia dell'immaginazione e spontaneità del consumatore culturale odierno non ha bisogno di essere ricondotta a meccanismi psicologici. I prodotti stessi, a partire dal più tipico, il film sonoro, paralizzano quelle facoltà perla loro stessa costituzione oggettiva. Essi sono fatti in modo che la loro apprensione adeguata esige bensì prontezza d'intuito, doti di osservazione, competenza specifica, ma anche da vietare addirittura l'attività mentale dello spettatore, se questi non vuol perdere i fatti che gli passano rapidamente davanti[…]
La violenza della società industriale opera negli uomini una volta per tutte. I prodotti dell'industria culturale possono contare di essere consumati alacremente anche in stato di distrazione. Ma ciascuno di essi è un modello del gigantesco meccanismo economico che tiene tutti sotto pressione fin dall'inizio, nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia. Da ogni film sonoro, da ogni trasmissione radio, si può desumere ciò che non si potrebbe ascrivere ad effetto di ciascuno di essi singolarmente, ma solo di tutti insieme nella società. Immancabilmente ogni singola manifestazione dell'industria culturale riproduce gli uomini come ciò che li ha già resi l'industria culturale intera. […]

Solo l'obbligo di inserirsi continuamente, sotto le minacce più gravi, come esperto estetico nella vita industriale, ha definitivamente asservito l'artista. Un tempo essi firmavano le loro lettere, come Kant e Hume, “ servo umilissimo ”, e intanto minavano le basi del trono e dell'altare. Oggi chiamano per nome i capi di governo e sono sottomessi, in ogni impulso artistico, al giudizio dei loro principali illetterati. L'analisi data da Tocqueville cento anni fa si è nel frattempo pienamente avverata. Sotto il monopolio privato della cultura accade realmente che “la tirannia lascia libero il corpo e investe direttamente l'anima. Là il padrone non dice più: devi pensare come me o morire. Ma dice: sei libero di non pensare come me, la tua vita, i tuoi beni, tutto ti sarà lasciato, ma da questo momento sei un intruso fra noi ”. Chi non si adegua è colpito da un'impotenza economica che si prolunga nella impotenza spirituale dell'isolato. Escluso dall'industria, è facile convincerlo d'insufficienza. Mentre ormai, nella produzione materiale, il meccanismo della domanda e dell'offerta è in corso di dissoluzione, esso opera nella sovrastruttura come controllo a vantaggio dei padroni. I consumatori sono gli operai e impiegati, farmers e piccoli borghesi. La totalità delle istituzioni esistenti li imprigiona talmente corpo ed anima che essi soggiacciono senza resistenza a tutto ciò che viene loro offerto. E come i dominati hanno preso sempre la morale che veniva loro dai  signori più sul serio di questi ultimi, così oggi le masse ingannate soggiacciono, più ancora dei fortunati, al mito del successo [...]

Giudizio critico e competenza sono banditi come presunzione di chi si crede superiore agli altri, mentre la cultura democraticamente, ripartisce i suoi privilegi fra tutti […]

Ma il nuovo è che gli elementi inconciliabili della cultura, arte e svago, vengano ridotti attraverso la loro sottomissione allo scopo, ad un solo falso denominatore: la totalità dell’industria culturale. Essa consiste nella ripetizione. Che le sue innovazioni tipiche consistano sempre solo in miglioramenti della produzione di massa, non è affatto estrinseco al sistema. A ragione l’interesse di innumerevoli consumatori va tutto alla tecnica, e non ai contenuti rigidamente ripetuti, intimamente svuotati e già mezzo abbandonati. […]
Ciononostante l’industria culturale rimane l’industria del divertimento [...] L’amusement è il prolungamento del lavoro sotto il tardo capitalismo. Esso è cercato da chi vuol sottrarsi al processo di lavoro meccanizzato per essere di nuovo in grado di affrontarlo. Ma nello stesso tempo la meccanizzazione ha acquistato tanto potere sull’uomo durante il temppo libero e sulla sua felicità, determina così integralmente la fabbricazione dei prodotti di svago, che egli non può più apprendere altro che le copie e le riproduzioni del processo lavorativo stesso. […]Al processo lavorativo nella fabbrica e nell’ufficio si può sfuggire solo adeguandosi ad esso nell’ozio. Di ciò soffre inguaribilmente ogni amusement. Il piacere si irrigidisce in noia, poiché, per restare piacere, non deve costare altro sforzo, e deve quindi muoversi strettamente nei binari delle associazioni consuete. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria: il prodotto prescrive ogni reazione: non per il suo contesto oggettivo – che si squaglia appena si rivolge alla facoltà pensante – ma attraverso segnali. Ogni connessione logica, che richieda fiato intellettuale, viene scrupolosamente evitata. Gli sviluppi devono scaturire ovunque possibile dalla situazione immediatamente precedente, e non dall’idea del tutto […]

Già oggi le opere d'arte, come parole d'ordine politiche, vengono adattate opportunamente dall'industria culturale, inculcate a prezzi ridotti a un pubblico riluttante, e il loro uso diventa accessibile al popolo come quello dei parchi.  Ma la dissoluzione del loro autentico carattere di merce  non significa che esse siano custodite e salvate nella vita  di una libera società, ma che è venuta meno anche l'ultima  garanzia contro la loro degradazione a beni culturali. L 'abolizione del privilegio culturale per liquidazione e svendita  non introduce le masse ai domini già loro preclusi, ma contribuisce, nelle condizioni sociali attuali, proprio alla rovina  della cultura, al progresso della barbarica assenza di relazioni.[…]

La cultura è una merce paradossale talmente soggetta alla legge dello scambio che non è più neppure scambiata; si risolve così ciecamente nell'uso che non è più possibile utilizzarla. Perciò si fonde con la reclame, che diventa sempre più onnipotente quanto più sembra assurda dove la concorrenza è puramente apparente.[…]

Nella società concorrenziale la reclame adempiva alla funzione sociale di orientare il compratore sul mercato, facilitava la scelta e aiutava il fornitore più abile ma finora sconosciuto a far giungere la sua merce agli interessati. Essa non solo costava, ma risparmiava tempo-lavoro. Ora che il libero mercato volge alla fine, si trincera, in essa, il dominio del sistema. Essa ribadisce il vincolo che lega i consumatori alle grandi ditte. Solo chi può pagare correntemente le tasse esorbitanti rilevate dalle agenzie pubblicitarie, e in primo luogo dalla radio stessa, e cioè chi fa già parte del sistema o viene cooptato espressamente, può entrare come venditore sullo pseudomercato. Le spese di pubblicità, che finiscono per rifluire nelle tasche dei monopoli, evitano di dover schiacciare ogni volta la concorrenza di outsiders sgraditi; garantiscono che i padroni del vapore restino entre soi, in circolo chiuso, non dissimili, in ciò, dalle
deliberazioni dei consigli economici che, nello stato totalitario, controllano l'apertura di nuove aziende o la gestione di quelle esistenti.

(Horkheimer - Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Torino 1966; pp. 136-137, 142-144, 172-175)

lunedì 22 aprile 2013

in trasferta a Francoforte, con la prof. Balducci


L'illuminismo, nel senso piú ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l'obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura. Il programma dell'illuminismo era di liberare il mondo dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere i miti e di rovesciare l'immaginazione con la scienza. Bacone, «il padre della filosofia sperimentale»', ha già raccolto i vari motivi[…]
Benché alieno dalla Matematica, Bacone ha saputo cogliere esattamente l'animus della scienza successiva. Il felice connubio, a cui egli pensa, fra l'intelletto umano e la natura delle cose, è di tipo patriarcale: l'intelletto che vince la superstizione deve comandare alla natura disincantata. Il sapere, che è potere non conosce limiti, né nell'asservimento delle creature, né nella sua docile acquiescenza ai signori del mondo. Esso è a disposizione, come di tutti gli scopi dell'economia borghese, nella fabbrica e sul campo di battaglia, cosí di tutti gli operatori senza riguardo alla loro origine. I re non dispongono della tecnica piú direttamente di quanto ne dispongano i mercanti: essa è democratica come il sistema economico in cui si sviluppa. La tecnica è l'essenza di questo sapere. Esso non tende a concetti e ad immagini, alla felicità della conoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoro altrui, al capitale. Tutte le scoperte che riserva ancora secondo Bacone, sono a loro volta solo strumenti: la radio come stampa sublimata, il caccia come artiglieria piú efficiente, la teleguida come bussola più sicura. Ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura, come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini. Non c'è altro che tenga. Privo di riguardi verso se stesso, l'illuminismo ha bruciato anche l'ultimo resto della propria autocoscienza. Solo il pensiero che fa violenza a se stesso è abbastanza duro per infrangere i miti. […]
D'ora in poi la materia dev'essere dominata al di fuori di ogni illusione di forze ad essa superiori o in essa immanenti, di qualità occulte. Ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell'utilità, è, agli occhi dell'illuminismo, sospetto. E quando l'illuminismo può svilupparsi indisturbato da ogni oppressione esterna, non c'è piú freno. Alle sue stesse idee sui diritti degli uomini finisce per toccare la sorte dei vecchi universali. Ad ogni resistenza spirituale che esso incontra, la sua forza non fa che aumentare.”
(M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, a cura di R. Solmi, introduzione di C. Galli, Einaudi, Torino 1997, pp. 12-14)


In un racconto omerico è custodito il nesso di mito, do minio e lavoro. Il dodicesimo canto dell'Odissea narra del passaggio davanti alle Sirene. […] La sua via fu quella dell'obbedienza e del lavoro, su cui la soddisfazione brilla eternamente come pura apparenza, come bellezza impotente. Il pensiero di Odisseo, ugualmente ostile alla propria morte e alla propria felicità, sa di tutto questo. Egli conosce due sole possibilità di scampo. Una è quella che prescrive ai compagni. Egli tappa le loro orecchie con la cera, e ordina loro di remare a tutta forza. Chi vuol durare e sussistere, non deve porgere ascolto al richiamo dell'irrevocabile, e può farlo solo in quanto non è in grado di ascoltate. E' ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare in avanti, e lasciar stare tutto ciò che è a lato. L'impulso che li indurrebbe a deviare va sublimato - con rabbiosa amarezza in ulteriore sforzo. Essi diventano pratici. L'altra possibilità è quella che sceglie Odisseo, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé. Egli ode, ma impotente, legato all'albero della nave, e piú la tentazione diventa forte, e piú strettamente si fa legare, così come, piú tardi, anche i borghesi sì negheranno piú tenacemente la felicità quanto più - crescendo la loro potenza - l'avranno a portata di mano. Ciò che ha udito resta per lui senza seguito: egli non può che accennare col capo di slegarlo, ma è ormai troppo tardi: i compagni, che non odono nulla, sanno solo del pericolo del canto, e non della sua bellezza, e lo lasciano legato all'albero, per salvarlo e per salvare sé con lui. Essi riproducono, con la propria, la vita dell'oppressore, che non può piú uscire dal suo ruolo sociale. Gli stessi vincoli con cui si è legato irrevocabilmente alla prassi, tengono le Sirene lontano dalla prassi: la loro tentazione è neutralizzata a puro oggetto di contemplazione, ad arte. L'incatenato assiste ad un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo grido appassionato, la sua richiesta di liberazione, muore già in un applauso. Cosí il godimento artistico e il lavoro manuale si separano all'uscita dalla preistoria. L'epos contiene già la teoria giusta. Il patrimonio culturale sta in esatto rapporto col lavoro comandato, e l'uno e l'altro hanno il loro fondamento nell'obbligo ineluttabile del dominio sociale sulla natura.
(M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, a cura di R. Solmi, introduzione di C. Galli, Einaudi, Torino 1997, pp. 39-43)




sabato 20 aprile 2013

900 ...poesia, poesia!!!

http://www.needfulthings.it/poesie.htm

Sono quella che sono
Sono fatta così
Se ho voglia di ridere
Rido come una matta
Amo colui che m'ama
Non è colpa mia
Se non e sempre quello
Per cui faccio follie
Sono quella che sono
Sono fatta così
Che volete ancora
Che volete da me
Son fatta per piacere
Non c'e niente da fare
Troppo alti i miei tacchi
Troppo arcuate le reni
Troppo sodi i miei seni
Troppo truccati gli occhi
E poi
Che ve ne importa a voi
Sono fatta così
Chi mi vuole son qui
Che cosa ve ne importa
Del mio proprio passato
Certo qualcuno ho amato
E qualcuno ha amato me
Come i giovani che s'amano
Sanno semplicemente amare
Amare amare...
Che vale interrogarmi
Sono qui per piacervi
E niente può cambiarmi
Jacques Prévert

e Wislawa, Cesare, Federico.....