lunedì 22 aprile 2013

in trasferta a Francoforte, con la prof. Balducci


L'illuminismo, nel senso piú ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l'obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura. Il programma dell'illuminismo era di liberare il mondo dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere i miti e di rovesciare l'immaginazione con la scienza. Bacone, «il padre della filosofia sperimentale»', ha già raccolto i vari motivi[…]
Benché alieno dalla Matematica, Bacone ha saputo cogliere esattamente l'animus della scienza successiva. Il felice connubio, a cui egli pensa, fra l'intelletto umano e la natura delle cose, è di tipo patriarcale: l'intelletto che vince la superstizione deve comandare alla natura disincantata. Il sapere, che è potere non conosce limiti, né nell'asservimento delle creature, né nella sua docile acquiescenza ai signori del mondo. Esso è a disposizione, come di tutti gli scopi dell'economia borghese, nella fabbrica e sul campo di battaglia, cosí di tutti gli operatori senza riguardo alla loro origine. I re non dispongono della tecnica piú direttamente di quanto ne dispongano i mercanti: essa è democratica come il sistema economico in cui si sviluppa. La tecnica è l'essenza di questo sapere. Esso non tende a concetti e ad immagini, alla felicità della conoscenza, ma al metodo, allo sfruttamento del lavoro altrui, al capitale. Tutte le scoperte che riserva ancora secondo Bacone, sono a loro volta solo strumenti: la radio come stampa sublimata, il caccia come artiglieria piú efficiente, la teleguida come bussola più sicura. Ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura, come utilizzarla ai fini del dominio integrale della natura e degli uomini. Non c'è altro che tenga. Privo di riguardi verso se stesso, l'illuminismo ha bruciato anche l'ultimo resto della propria autocoscienza. Solo il pensiero che fa violenza a se stesso è abbastanza duro per infrangere i miti. […]
D'ora in poi la materia dev'essere dominata al di fuori di ogni illusione di forze ad essa superiori o in essa immanenti, di qualità occulte. Ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell'utilità, è, agli occhi dell'illuminismo, sospetto. E quando l'illuminismo può svilupparsi indisturbato da ogni oppressione esterna, non c'è piú freno. Alle sue stesse idee sui diritti degli uomini finisce per toccare la sorte dei vecchi universali. Ad ogni resistenza spirituale che esso incontra, la sua forza non fa che aumentare.”
(M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, a cura di R. Solmi, introduzione di C. Galli, Einaudi, Torino 1997, pp. 12-14)


In un racconto omerico è custodito il nesso di mito, do minio e lavoro. Il dodicesimo canto dell'Odissea narra del passaggio davanti alle Sirene. […] La sua via fu quella dell'obbedienza e del lavoro, su cui la soddisfazione brilla eternamente come pura apparenza, come bellezza impotente. Il pensiero di Odisseo, ugualmente ostile alla propria morte e alla propria felicità, sa di tutto questo. Egli conosce due sole possibilità di scampo. Una è quella che prescrive ai compagni. Egli tappa le loro orecchie con la cera, e ordina loro di remare a tutta forza. Chi vuol durare e sussistere, non deve porgere ascolto al richiamo dell'irrevocabile, e può farlo solo in quanto non è in grado di ascoltate. E' ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare in avanti, e lasciar stare tutto ciò che è a lato. L'impulso che li indurrebbe a deviare va sublimato - con rabbiosa amarezza in ulteriore sforzo. Essi diventano pratici. L'altra possibilità è quella che sceglie Odisseo, il signore terriero, che fa lavorare gli altri per sé. Egli ode, ma impotente, legato all'albero della nave, e piú la tentazione diventa forte, e piú strettamente si fa legare, così come, piú tardi, anche i borghesi sì negheranno piú tenacemente la felicità quanto più - crescendo la loro potenza - l'avranno a portata di mano. Ciò che ha udito resta per lui senza seguito: egli non può che accennare col capo di slegarlo, ma è ormai troppo tardi: i compagni, che non odono nulla, sanno solo del pericolo del canto, e non della sua bellezza, e lo lasciano legato all'albero, per salvarlo e per salvare sé con lui. Essi riproducono, con la propria, la vita dell'oppressore, che non può piú uscire dal suo ruolo sociale. Gli stessi vincoli con cui si è legato irrevocabilmente alla prassi, tengono le Sirene lontano dalla prassi: la loro tentazione è neutralizzata a puro oggetto di contemplazione, ad arte. L'incatenato assiste ad un concerto, immobile come i futuri ascoltatori, e il suo grido appassionato, la sua richiesta di liberazione, muore già in un applauso. Cosí il godimento artistico e il lavoro manuale si separano all'uscita dalla preistoria. L'epos contiene già la teoria giusta. Il patrimonio culturale sta in esatto rapporto col lavoro comandato, e l'uno e l'altro hanno il loro fondamento nell'obbligo ineluttabile del dominio sociale sulla natura.
(M. Horkheimer - Th. W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, a cura di R. Solmi, introduzione di C. Galli, Einaudi, Torino 1997, pp. 39-43)




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